Barbaresco Sorì San Lorenzo Gaja 1985

97/100 – Barbaresco Sorì San Lorenzo Gaja 1985

La tradizione di famiglia vuole che il nome dato alla parcella acquistata, non corrisponda mai con il reale nome del cru. E così anche nel caso di quella posizionata all’interno del cru Secondine di Barbaresco. Prende il nome di Sorì, in quanto ha un’esposizione “soleggiata” e dunque rivolta a sud, e San Lorenzo in memoria del santo protettore del Duomo di Alba. La famiglia Gaja lo acquistò nel 1964 e prima quel vigneto era beneficio parrocchiale proprio del Duomo.
Ha una superficie di poco meno di 4 ha, un’altitudine di 250 mt. e un’età media delle vigne di 55 anni. Il San Lorenzo, se paragonato ai suoi “fratellini” è quello che matura e terziarizza più tardi. Lo potremmo associare più vicino a Serralunga che a Barbaresco, per via della sua austerità, il tannino ed il suo carattere balsamico. Ecco dunque che anche un millenovecentoottantacinque nel bicchiere, non ti darà mai l’impressione della sua maturità. Pare fatto l’altro ieri, anche se figlio di un’epoca enologica dalle caratteristiche completamente diverse da quelle di oggi. In questi 37 anni non è cambiato solo il clima, ma anche l’età delle vigne e con essa anche l’esperienza di vinificazione. Le maturazioni fenoliche erano poi più tardive rispetto a quelle del nuovo millennio. In quegli anni le grandi annate si potevano contare sulle dita di una mano all’interno di una decade. E l’85 è sicuramente tra queste. Un vino grandioso, granitico, inflessibile. Il naso ha un’apertura olfattiva dal grande respiro. Frutta, tanta frutta, in confettura e con qualche accenno di amarena sotto spirito, un floreale passito di grande finezza, note di speziatura dolce e piccante in grande armonia che ci ricorda il banchetto di un bazar del medio oriente, una mineralità di pietra focaia, brezza salina, eucalipto, mentuccia e poi c’è quel carattere terroso, di sottobosco bagnato, funghi essicati e humus. Potremmo ancora disquisire per altri dieci minuti per tutti i ricordi che emana questo vino, ma è poi la voglia di berlo che prende il sopravvento. Palato dinamico di grande stoffa. Volete sapere se la trama del tannino sembra ricamata all’uncinetto? La risposta è sì, perché poi ci permette di goderne la sua articolazione infinita. Un’uscita in perfetta armonia, dove ogni elemento gustativo e post olfattivo si prendono a braccetto in questo lungo viaggio.

E la sua grandezza è tale fino ai titoli di coda.

Barbaresco Gaja 2018

91/100 – Barbaresco Gaja 2018

Il Barbaresco firmato Gaja proviene da uve nebbiolo da 14 vigneti diversi, situati tra i 250 ed i 330 mt slm e con un’età media di 45 anni. Ogni singola vigna viene vinificata ed invecchiata per 12 mesi prima di procedere all’assemblaggio e compiere ulteriori 12 mesi di legno. Vigneti nelle migliori esposizioni, esperienza tramandata da generazioni di grande savoir faire, bassissime rese, fanno sì che questo Barbaresco sia da sempre un punto di riferimento nell’olimpo dell’enologia albese. Più che un Barbaresco “classico”, potremmo definirlo un Barbaresco “multi cru” vista la severità e le attenzioni dedicate ad ogni singola parcella. Nel mio bicchiere scende l’annata 2018, millesimo nato sotto buoni auspici fino a quel maledettissimo giorno di luglio in cui si è scatenata una violenta grandinata. “Arrivava da Guarene – racconta Rossana Gaja – e non abbiamo potuto che assistere impotenti all’inferno che si sarebbe scatenato poi in quei pochi minuti. Il vigneto San Lorenzo è stato quello più colpito”. Si è dovuta fare una forte cernita in vigna ed in cantina per portare a casa il salvabile e poter dare un vino degno del nome che porta, andando a sacrificare i grand cru in quell’anno. Anche se non possiede la profondità dei migliori millesimi, il vino riserva una raffinatezza davvero unica, spostando le sue carte migliori sulla croccantezza di un frutto a bacca rossa come il ribes e la fragolina di bosco ed un floreale che richiama l’iris ed il petalo di rosa. Un’olfattiva che “pinotnereggia” per alcuni tratti e con quel tocco di speziatura per un vino che potrà tuttavia sfidare il tempo ed emergere come sta facendo ora la 2014, annata con cui condivide molte caratteristiche, pur nascendo da difficoltà per motivi diversi.

Palato che porta in grembo una grande signorilità, esprimendosi attraverso un tannino deciso ed una matrice minerale messa in risalto in un corpo più esile ma dal grande fascino.

Quel fascino che può essere colto ed apprezzato già nel breve periodo.

Barbaresco Pajorè Rizzi 2017

Il Pajorè è un cru dolcemente disteso nella parte estrema nord-occidentale del comune di Treiso, costeggiando il cru di Montaribaldi, il quale invece si trova nel comune di Barbaresco. Poco più distante troviamo i cru di Roncaglie, Roncagliette e Roccalini, quindi possiamo dire che è a tutti gli effetti una zona baciata dal signore per quando riguarda le caratteristiche pedoclimatiche proprie di queste dolci colline e di conseguenza della qualità dei vini che se ne ricavano. La famiglia Dellapiana della cantina Rizzi ne possiede tre ettari ed è stato vinificato per la prima volta nel 2004. Enrico Dellapiana, con la sorella Jole, prosegue l’egregio lavoro ereditato dal padre Ernesto, continuandone lo stile aziendale che vede affinamenti solo in botti grandi, una partecipazione aromatica del legno poco invasiva e che vuole mettere in risalto quelle che sono le caratteristiche del singolo cru, attraverso uno stile che privilegia corpi snelli e longilinei, andandone a risaltare principalmente quel carattere, chiamiamolo col termine “nervoso”, in linea con quelli che sono i parametri del villaggio di Treiso.

I Dellapiana si dicono entusiasti dell’annata 2017, in quanto hanno deciso di fare i cru e hanno ammaestrato quei tratti focosi e abbastanza contenuti nelle acidità del millesimo, se paragonato alla 2016. La raccolta delle uve con una buonissima maturazione fenolica, hanno permesso di produrre dei vini suadenti nell’immediato, ma che sapranno trarre beneficio del tempo anche sul lungo periodo. Andando inoltre ad arrotondare quegli spigoli gustativi giovanili, così come per gli altri grandi millesimi.

Questo Pajorè si presenta nel bicchiere con una veste rubino di estrema lucentezza, trasparenza e dal grande fascino. Già dal colore ti coinvolge e ti trascina all’interno di un bouquet cristallino nella definizione aromatica, preciso, nitido. Il frutto racconta principalmente di frutta rossa a bacca rossa, quella che richiama grinta e acidità. Lo sviluppo con l’ossigenazione poi fa uscire dei tratti più caldi, figli dell’annata, che portano maggiore attraenza e quella suadenza raccontata sopra. Palato dinamico, avvolgente, come dicevamo, sul finale esce quel tratto “nervoso” dato dalla grinta del tannino, pur mantenendosi con un taglio minuto e ben fatto e che troverà col tempo la giusta armonia. Così come l’articolazione, già appagante ora, potrà trovare maggiore allungo e ampiezza almeno tra una decina di anni.
Ovviamente se avrete la pazienza di aspettare.