Riesling: l’eredità dell’Alsazia

Giovedì 19 aprile sarò a Vercelli a guidare una degustazione di sei grandi Riesling, di una delle più prestigiose cantine alsaziane che risponde al nome di Zind-Humbrecht.

Sono stati scelti tutti dell’annata 2021, per mettere in risalto le caratteristiche dei differenti terroir, attraverso la lettura della degustazione a parità di millesimo.

Ancora pochi posti disponibili accedendo a questo link.

Ais VercelliAis PiemonteDomaine Zind-Humbrecht Turckheim

Langhe Nebbiolo 2007 Roberto Voerzio

Nelle numerose scorribande con Roberto Voerzio, ha sempre sorriso (ma non sappiamo invece se in verità voleva mandarmi a quel paese… LOL) quando lo definivo “il più modernista dei tradizionalisti” poiché “abbinava” le lunghe macerazioni, agli affinamenti in barriques.

Quindi è sempre un tuffo nel passato quando si ha l’occasione di bere un vino di Voerzio appartenente ad un’era enologica fa. Oggi si chiama Difrancesco ed è affinato in tonneaux quello che una volta era il San Francesco-Fontanazza affinato in carati, perché “oggi” non si possono più menzionare più vigneti in etichetta. Ma vi posso dire che questo 2007 è un vero e proprio coup de coeur. Parte da un millesimo non facile perché figlio di un’annata calda e, mentre tanti suoi colleghi coetanei vinosi si rivelerebbero già seduti oggi, lui invece ha ancora una stoffa da maratoneta per correre con distacco.

Possiede una croccantezza di frutto senza nessun cedimento nel “sotto spirito” del millesimo. È preciso e definito come una fotografia ad alto numero di pixels, profuma di rosa peonia che racconta la florealità di La Morra, possiede una stratificazione speziata davvero bilanciata tra quelle piccanti e quelle dolci. Infatti il carattere vanigliato non sale mai in cattedra.

Al palato troviamo grande freschezza acido-sapido che tiene smorzata la vampata pseudo calorica che tuttavia ti aspetteresti dalla bocca di una 2007. Grande fattura del tannino ed una profondità gustativa che chiude in un finale che avrebbe ancora molto da rivelare.

Ma, ahimè, la bottiglia è presto finita ancora prima di raccontarla.

Ruché di Castagnole Monferrato Vigna del Parroco 2018

Possiamo considerare Don Giacomo Cauda una sorta di Dom Pérignon per il Ruchè.

Classe 1927, originario del Roero e quindi completamente ignaro dell’esistenza di questo vitigno prima del suo arrivo nel 1964 come parroco proprio nel comune di Castagnole Monferrato, culla del Ruchè.

I vigneti annessi alla parrocchia versavano in completo stato di abbandono. Don Giacomo forte del suo animo contadino, alternò messe e trattore, per ridare vita al vigneto.

Si innamora del vino prodotto, così diverso dal nebbiolo che conosceva. Un vino “ingentilito”, mai sopra le righe. Vinificato spesso dolce o per tagliare altri vini, lui diventa artefice invece della versione “secca” e vinificato in purezza. Dalla prima vinificazione ne ricavò 28 bottiglioni.

In preda all’euforia e dalla consapevolezza delle sue potenzialità, decise di espandere il vigneto produttivo e portarlo fino ad una dimensione equivalente a poco più di 8 “giornate” piemontesi.

Presto però si trovò a dover fare i conti con la curia, in quanto mal vedeva questa versione agricola del prete, ma soprattutto per i debiti con le banche affrontati per fare fronte all’investimento. Fortuna vuole che la strada era tracciata e fu seguita anche da altri produttori, portando il nome del Ruché, al di fuori dei confini comunali.

Una volta raggiunta la veneranda età, dove il lavoro della terra si fece sempre più pesante, dovette abbandonare il ruolo di vignaiolo. La vigna fu presa in carico dalla famiglia Borgognone prima e da un giovane Luigi Ferraris poi, che ne fece tesoro della sua nobile storia. Era il 2016.

Assaggiamo la versione targata 2018. Una versione precisa, dinamica, versatile del Ruchè.

Buona cromatica di una veste rubino luminosa. Al naso abbiamo un bagaglio di frutta rossa a bacca nera associato alle note “aromatiche” tipiche di questo vitigno, come la peonia ed il geranio. Un naso non solo esuberante, ma consapevole di una complessità stratificata e mai ruffiana.

Note di pepe ed eucalipto a chiudere.

Palato “gentile” composto, tannino dolce e chiusura marcata da una bellissima scia sapido-minerale.

Barolo Riserva Bussia 90 dì Giacomo Fenocchio 2016

Sappiamo benissimo come oggi il concetto del legame territoriale venga inseguito da parte del produttore di vino, mentre il consumatore/appassionato ne fa quasi una malattia. Ore passate a degustare, comparare e studiare. Tempo dedicato e chilometri macinati in lungo e in largo, tra visite in cantina, pellegrinaggi in vigna e degustazioni cieche a cercare quel profumo, quella sfumatura, quella declinazione del tannino che ti faccia scattare la scintilla che ti illumini sulla via di Damasco, quando nel bicchiere ci trovi il collegamento vino-produttore-annata.

Tappa imprescindibile di questa via di Damasco, passa necessariamente da Monforte d’Alba. Quando varcate la soglia della cantina di Giacomo Fenocchio, avete come l’impressione di aver interrotto un percorso spazio temporale, le mode sono bandite, il tempo si è fermato e sentire parlare Claudio Fenocchio, rappresentante della quinta generazione di viticoltori, sentirete che qui si va oltre a quel concetto del legame territoriale. Perché nella Bussia, Claudio ci è nato e ci vive. Alle vigne gli dà del tu, conosce ogni centimetro quadrato di ogni sua vigna, ma in particolare con la Bussia lo si sente respirare un’aria diversa, da innamorato di questa terra. Sembra avere il cordone ombelicale ancora fortemente attaccato a questa vigna.

Gli avevano insegnato che la Bussia aveva qualcosa di speciale e nel 2008 decise di avviare delle piccole sperimentazioni con le uve, o sarebbe il caso di parlare di gioielli, che nascevano dalla Bussia, dove far nascere una Riserva solo nelle grandissime annate. Facendo tesoro degli insegnamenti ereditati dal nonno e dal bisnonno, spinse quindi le macerazioni sulle bucce fino a 90 giorni. Questi esperimenti furono accantonati nella 2009 poiché non ritenuta all’altezza, mentre lo Zenith lo si toccò con la 2010. Le uve avevano una maturazione fenolica talmente perfetta che nacque ufficialmente la prima annata del Barolo Bussia Riserva 90 dì.

Ebbi la fortuna di assaggiarlo solo una volta quella mitica 2010 che profumava di tartufo e quindi la curiosità che si celava dietro alla stappatura di questa 2016, era pari a quella di un bambino per la prima volta in gita a Gardaland. La 2016 nutre sempre forti aspettative e per stoffa e caratura, ha per certi versi molte similitudini con la 2010.

Subito il pensiero ti fa aprire il file denominato Bussia nel nostro cervello. Colleghi quelle note di marasca sotto spirito, la violetta passita, la mentuccia e gli accenni di cuoio e tabacco che emergono, pur essendo un vino nel pieno della sua gioventù, per le sua caratteristiche di vinificazione. Oltre ai 90 giorni di macerazione, passa più di 4 anni di affinamento in botti dalle capienze che vanno dai 35 ai 50 hl. Il palato è potente, di grande stoffa, mentre la grande sensazione pseudo calorica data dall’alcol viene subito “rinfrescata” dalla balsamicità e dalla freschezza acido-sapida. Il tannino della Bussia è incisivo, tenace, ma con un profilo più accomodante e meno graffiante se paragonato ai “grand cru” di Monforte che si trovano sul versante opposto che guarda Serralunga, come ad esempio Castelletto, Ginestra o Mosconi.

La persistenza gusto-olfattiva è di quelle che non si dimenticherà facilmente.

Altra prova che fa di Claudio Fenocchio un vignaiolo intraprendente, amante del rischio, ma con la testa sulle spalle e fermamente convinto sulla bontà della propria materia prima, risiede sul fatto che la prossima Riserva è stata riservata sulla tanto discussa annata 2018. Ma per questa toccherà aspettare gennaio 2024 prima di mettere in opera il cavatappi.

D’altronde la pazienza, qui è di casa.

Barbaresco Sorì San Lorenzo Gaja 1985

97/100 – Barbaresco Sorì San Lorenzo Gaja 1985

La tradizione di famiglia vuole che il nome dato alla parcella acquistata, non corrisponda mai con il reale nome del cru. E così anche nel caso di quella posizionata all’interno del cru Secondine di Barbaresco. Prende il nome di Sorì, in quanto ha un’esposizione “soleggiata” e dunque rivolta a sud, e San Lorenzo in memoria del santo protettore del Duomo di Alba. La famiglia Gaja lo acquistò nel 1964 e prima quel vigneto era beneficio parrocchiale proprio del Duomo.
Ha una superficie di poco meno di 4 ha, un’altitudine di 250 mt. e un’età media delle vigne di 55 anni. Il San Lorenzo, se paragonato ai suoi “fratellini” è quello che matura e terziarizza più tardi. Lo potremmo associare più vicino a Serralunga che a Barbaresco, per via della sua austerità, il tannino ed il suo carattere balsamico. Ecco dunque che anche un millenovecentoottantacinque nel bicchiere, non ti darà mai l’impressione della sua maturità. Pare fatto l’altro ieri, anche se figlio di un’epoca enologica dalle caratteristiche completamente diverse da quelle di oggi. In questi 37 anni non è cambiato solo il clima, ma anche l’età delle vigne e con essa anche l’esperienza di vinificazione. Le maturazioni fenoliche erano poi più tardive rispetto a quelle del nuovo millennio. In quegli anni le grandi annate si potevano contare sulle dita di una mano all’interno di una decade. E l’85 è sicuramente tra queste. Un vino grandioso, granitico, inflessibile. Il naso ha un’apertura olfattiva dal grande respiro. Frutta, tanta frutta, in confettura e con qualche accenno di amarena sotto spirito, un floreale passito di grande finezza, note di speziatura dolce e piccante in grande armonia che ci ricorda il banchetto di un bazar del medio oriente, una mineralità di pietra focaia, brezza salina, eucalipto, mentuccia e poi c’è quel carattere terroso, di sottobosco bagnato, funghi essicati e humus. Potremmo ancora disquisire per altri dieci minuti per tutti i ricordi che emana questo vino, ma è poi la voglia di berlo che prende il sopravvento. Palato dinamico di grande stoffa. Volete sapere se la trama del tannino sembra ricamata all’uncinetto? La risposta è sì, perché poi ci permette di goderne la sua articolazione infinita. Un’uscita in perfetta armonia, dove ogni elemento gustativo e post olfattivo si prendono a braccetto in questo lungo viaggio.

E la sua grandezza è tale fino ai titoli di coda.

Langhe Nebbiolo Sperss Gaja 2001

96/100 – Langhe Nebbiolo Sperss Gaja 2001

Era il 1988 quando Angelo Gaja acquistava una parcella all’interno del cru Marenca-Rivette a Serralunga d’Alba. Angelo aveva già camminato quelle vigne da piccolo, quando aiutava nonno Giovanni nella raccolta delle uve. Ecco perché venne scelto poi il nome di Sperss che in dialetto significa “nostalgia”. Con lo Sperss, il nome Gaja si rilancia alla grande anche nella denominazione Barolo. Arrivò poi anche l’acquisizione della parcella all’interno del Cerequio di La Morra, chiamato Conteisa, in memoria della disputa durata 100 anni tra i comuni di La Morra e Barolo nell’acquisizione di queste terre. L’esordio del Conteisa coincise però con l’annata 1996 e combaciò dunque con il primo anno in cui Angelo scelse di imbottigliare i cru con la denominazione di Langhe Nebbiolo, dove entrarono anche un 5% di uve barbera. Tuttavia prevale sempre lo spirito nebbioleggiante nelle differenze dei cru; più caldo, potente e tenace lo Sperss, più accomodante, avvolgente e speziato il Conteisa. Lo Sperss nasce da una parcella di 12 ettari, con esposizione sud e sud-ovest, un’altitudine di 370 mt. ed un’età media delle viti di 55 anni. Nel bicchiere abbiamo il millesimo 2001, annata che è nel cuore di ogni appassionato langarolo. Partita in sordina in quanto gli americani avevano preferito di gran lunga la 2000, con le relative conseguenze di ricaduta sul mercato. La 2001 ci ha messo un po’ di tempo prima di dire la sua. Come è giusto che sia quando si parla di annate più classiche e la tua pazienza viene ripagata in tutta questa attesa, dalla sua grandezza e da una “prontezza” di beva a distanza di 21 anni.
Veste un rubino luminoso che sfuma leggermente verso il granato. Al naso mette in campo tutta la stoffa ed il carattere di Serralunga. Ma la capacità delle 2001 è quello di dare comunque grazia, raffinatezza e piacevolezza al tutto. Frutto scuro di una visciola sotto spirito, prugna, violetta passita. Con l’ossigenazione ecco uscire la nota di eucalipto sempre presente in questo vino, che gioca con le note più “dolci” di tabacco, cuoio e cannella. Al palato si palesa tutta la potenza di Serralunga, attraverso una trama tannica fitta e decisa, ma trova tutto l’equilibrio del caso in un corpo caldo e avvolgente. E’ proprio questo equilibrio gustativo che permette di dare profondità all’articolazione, di quelle che si faranno ricordare per sempre.

Barbaresco Gaja 2018

91/100 – Barbaresco Gaja 2018

Il Barbaresco firmato Gaja proviene da uve nebbiolo da 14 vigneti diversi, situati tra i 250 ed i 330 mt slm e con un’età media di 45 anni. Ogni singola vigna viene vinificata ed invecchiata per 12 mesi prima di procedere all’assemblaggio e compiere ulteriori 12 mesi di legno. Vigneti nelle migliori esposizioni, esperienza tramandata da generazioni di grande savoir faire, bassissime rese, fanno sì che questo Barbaresco sia da sempre un punto di riferimento nell’olimpo dell’enologia albese. Più che un Barbaresco “classico”, potremmo definirlo un Barbaresco “multi cru” vista la severità e le attenzioni dedicate ad ogni singola parcella. Nel mio bicchiere scende l’annata 2018, millesimo nato sotto buoni auspici fino a quel maledettissimo giorno di luglio in cui si è scatenata una violenta grandinata. “Arrivava da Guarene – racconta Rossana Gaja – e non abbiamo potuto che assistere impotenti all’inferno che si sarebbe scatenato poi in quei pochi minuti. Il vigneto San Lorenzo è stato quello più colpito”. Si è dovuta fare una forte cernita in vigna ed in cantina per portare a casa il salvabile e poter dare un vino degno del nome che porta, andando a sacrificare i grand cru in quell’anno. Anche se non possiede la profondità dei migliori millesimi, il vino riserva una raffinatezza davvero unica, spostando le sue carte migliori sulla croccantezza di un frutto a bacca rossa come il ribes e la fragolina di bosco ed un floreale che richiama l’iris ed il petalo di rosa. Un’olfattiva che “pinotnereggia” per alcuni tratti e con quel tocco di speziatura per un vino che potrà tuttavia sfidare il tempo ed emergere come sta facendo ora la 2014, annata con cui condivide molte caratteristiche, pur nascendo da difficoltà per motivi diversi.

Palato che porta in grembo una grande signorilità, esprimendosi attraverso un tannino deciso ed una matrice minerale messa in risalto in un corpo più esile ma dal grande fascino.

Quel fascino che può essere colto ed apprezzato già nel breve periodo.

Barolo Cascina Francia Giacomo Conterno 2009

Un vino già aperto e performante a bottiglia appena stappata. Sulle prime emergono note di sottobosco, di humus, qualche sentore di brodo di carne che ricorda il risveglio della domenica mattina quando la nonna si era alzata alle sei per mettere su il pentolone sulla stufa. Con il passare del tempo esce tutta l’autorevolezza che risponde al nome di Cascina Francia. La ciliegia sotto spirito, il succo di anguria, la scorza di arancia, il balsamico, la mentuccia, il fungo porcino. Roba che “sticazzi” racconta tutto il carattere di Serralunga nella potenza di fuoco di Conterno nel firmare le uve del Francia. Una bomba enologica che devasta, ti lascia spiazzato dalla bontà, ma con estrema eleganza. Quasi come un serial killer che non lascia traccia del suo passaggio. Dategli un quarto d’ora ed emerge la brace del camino spento in una mattina di dicembre ed un bouquet di erbe aromatiche pronte per la migliore delle preparazioni culinarie.
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Palato estremamente dinamico. Tannino graffiante, deciso, incisivo, mai asciutto tipico nell’annata 2009. Dire “ricamato all’uncinetto” è limitativo in questa fase per via del suo essere “pugno di ferro in guanto di velluto”, ma sono pochi i vini al mondo che sanno dosare potenza e controllo meglio di un pneumatico Pirelli. La persistenza gustativa è degna di un tappeto rosso sulla Croisette di Cannes durante il Festival del Cinema. Ma quello che non si farà scordare è il ricordo che rimarrà impresso nella memoria.
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Da raccontare ai nipoti.

Barbaresco Pajorè Rizzi 2017

Il Pajorè è un cru dolcemente disteso nella parte estrema nord-occidentale del comune di Treiso, costeggiando il cru di Montaribaldi, il quale invece si trova nel comune di Barbaresco. Poco più distante troviamo i cru di Roncaglie, Roncagliette e Roccalini, quindi possiamo dire che è a tutti gli effetti una zona baciata dal signore per quando riguarda le caratteristiche pedoclimatiche proprie di queste dolci colline e di conseguenza della qualità dei vini che se ne ricavano. La famiglia Dellapiana della cantina Rizzi ne possiede tre ettari ed è stato vinificato per la prima volta nel 2004. Enrico Dellapiana, con la sorella Jole, prosegue l’egregio lavoro ereditato dal padre Ernesto, continuandone lo stile aziendale che vede affinamenti solo in botti grandi, una partecipazione aromatica del legno poco invasiva e che vuole mettere in risalto quelle che sono le caratteristiche del singolo cru, attraverso uno stile che privilegia corpi snelli e longilinei, andandone a risaltare principalmente quel carattere, chiamiamolo col termine “nervoso”, in linea con quelli che sono i parametri del villaggio di Treiso.

I Dellapiana si dicono entusiasti dell’annata 2017, in quanto hanno deciso di fare i cru e hanno ammaestrato quei tratti focosi e abbastanza contenuti nelle acidità del millesimo, se paragonato alla 2016. La raccolta delle uve con una buonissima maturazione fenolica, hanno permesso di produrre dei vini suadenti nell’immediato, ma che sapranno trarre beneficio del tempo anche sul lungo periodo. Andando inoltre ad arrotondare quegli spigoli gustativi giovanili, così come per gli altri grandi millesimi.

Questo Pajorè si presenta nel bicchiere con una veste rubino di estrema lucentezza, trasparenza e dal grande fascino. Già dal colore ti coinvolge e ti trascina all’interno di un bouquet cristallino nella definizione aromatica, preciso, nitido. Il frutto racconta principalmente di frutta rossa a bacca rossa, quella che richiama grinta e acidità. Lo sviluppo con l’ossigenazione poi fa uscire dei tratti più caldi, figli dell’annata, che portano maggiore attraenza e quella suadenza raccontata sopra. Palato dinamico, avvolgente, come dicevamo, sul finale esce quel tratto “nervoso” dato dalla grinta del tannino, pur mantenendosi con un taglio minuto e ben fatto e che troverà col tempo la giusta armonia. Così come l’articolazione, già appagante ora, potrà trovare maggiore allungo e ampiezza almeno tra una decina di anni.
Ovviamente se avrete la pazienza di aspettare.